Vivere Scanno

23 ago 2024

Le riflessioni pubbliche di Maria Carmela Notarmuzi sul costume di Scanno e sulle rivisitazioni di Liliana Spacone

 

Riflessioni sul valore simbolico del costume di Scanno

Durante l’estate sono state tante le iniziative dedicate al costume di Scanno e non essendo riuscita a parteciparvi come avrei voluto ho deciso di condividere alcune riflessioni sull’abito tradizionale e sulle rivisitazioni di Liliana Spacone.


La prima volta che ho visto le creazioni di Liliana ho sorriso con l’anima. Il suo vestito da sposa è bellissimo.
Gli ornamenti del "commodino" stilizzati sulle magliette sono ipnotici per chi li guarda. Le borse di stoffa con cui trasporto oggetti mentre viaggio in metropolitana o cammino per Roma, mi permettono di comunicare, a chi vuole saperlo, che le mie nonne passeggiano con me.

Quando ho visitato la sua mostra, la sensazione è stata quella di un peso che si alleggerisce e ho immaginato che nonna Maria e nonna Adelia stessero volando leggere. Questa suggestione ha cominciato a farmi riflettere sul valore simbolico del costume nel momento in cui ho saputo del percorso intrapreso dalla Fondazione FASTI e dal Comune di Scanno per farlo diventare patrimonio UNESCO.


Parlo di valore simbolico perché il costume non è più indossato nella quotidianità e quindi affinchè continui a essere vissuto dovrà necessariamente riferirsi anche a quello che ha rappresentato sia nel caso in cui venga proposto nelle sue fattezze originali, di una strepitosa bellezza, che negli esperimenti di rivisitazione auspicabili per evitare cristallizzazioni e forse aiutare i processi di riappropriazione.

Le immagini che nella mia mente evocano i ricordi del costume indossato dalle donne della mia vita, sono tante. Ne condivido due.

Avevo sei anni e per la Befana nonna Maria aveva chiesto a zia Adele di comprare per me e mia sorella Alessandra due libri di favole. Prima di pranzo nonna, seduta accanto al balcone, ci ha chiamate e con un gesto ci ha indicato di accomodarci su due sedioline davanti a lei. Voleva che io leggessi. Ha allargato le gambe per tendere il panno della gonna e la mantèra che magicamente diventavano tavolino, lo stesso sul quale d’estate mangiavamo pane e pummadora. Nonna accarezzava il bordo del libro, appoggiato sul tavolino di gonna, e sorrideva mentre io stentavo sulle parole.

Avevo undici anni e per la prima volta ho visto nonna Adelia mentre si preparava per il matrimonio della figlia Maria. La cura e la destrezza con cui indossava i vari pezzi del costume erano sorprendenti: una bellezza armoniosa di elementi prorompenti e un viso consapevole di forza.

Mai le mie nonne hanno parlato con lamentela delle loro rinunce e sacrifici. Il tempo e la conoscenza delle loro vite mi fa dire oggi che la regalità che tutte le donne di Scanno esprimevano, tante volte esaltata nei racconti, risiedeva nella compostezza dei sentimenti, nel volto leggermente spostato verso l’alto, nello sguardo vispo e intelligente di chi ha avuto la possibilità, in una società in cui gli uomini del paese erano assenti per gran parte dell’anno, di risolvere problemi in autonomia di pensiero.

Quando sento affermare, soprattutto dagli uomini, il potere decisionale delle donne scannesi rimango inebetita per uno scollamento interiore. Da una parte provo fascinazione per l’ammirazione adorante e l’orgoglio maschili verso le madri, dall’altra affiora un triste disappunto per quello che viene taciuto.

Se le donne scannesi di un tempo, quelle che indossavano il costume, oltre a cucire vestiti, fare calze ai ferri, accudire figlie, figli, genitori e suoceri, hanno seminato grano e granturco, hanno portato a piedi al mulino sacchi pesanti di cariossidi sulla testa, fatto la legna, aiutato i muratori a costruire o aggiustare case, è perché serviva, perché era funzionale a un’organizzazione sociale decisa dagli uomini. E’ vero che gestivano le risorse economiche della casa, ma è anche vero che il peso delle famiglie era quasi tutto sulle loro spalle. E comunque non decidevano le regole e la modalità della gestione. Infatti in tante mi hanno raccontato che quando gli uomini erano in casa quello che durante la loro assenza avevano sperimentato come altro modo possibile di gestire soldi, relazioni e cose, poteva essere fatto solo di nascosto.

Con fatica, sforzi, paure e rinunce, e anche con gusto e soddisfazione, rivestivano contemporaneamente i due ruoli genitoriali delle famiglie di allora. Tra le rinunce c’erano certamente, e non solo, quella a una vita coniugale di maggiore condivisione che avrebbe alleggerito lavoro e responsabilità e quella a una vita sessuale che l’uomo invece, lontano da casa, poteva avere con una libertà riconosciuta socialmente anche al di fuori del matrimonio.

La storia delle donne scannesi è comune a quella di tante altre donne di paesi, regioni e stati diversi dai nostri; i cambiamenti sociali avvenuti nel tempo, anche se ancora non hanno prodotto in maniera adeguata libertà di espressione e autodeterminazione femminili, possono far sembrare questi discorsi superati. Non penso lo siano e comunque è necessario affrontarli nella narrazione delle esistenze delle donne vestite con il costume che oggi si vuole mantenere vissuto.

E’ necessario perché il velo illusorio adagiato sulle storie di vita delle nostre antenate, quel velo che ce le ha raccontate come matriarche e regine, anche in virtù della regalità che il costume ancora oggi evoca, va tolto.

Nelle rivisitazioni creative di Liliana ho visto, simbolicamente, i sacrifici e le rinunce delle donne che indossavano il costume quotidianamente come seconda pelle, diventare copricapi, scarpe, vestiti leggeri, borse, magliette, lampade o sedie.

Quando Liliana parla delle sue creazioni si riferisce soprattutto alla caratteristica di ecosostenibilità dei materiali che usa e alla ispirazione che attinge dalla tradizione per innovare. Io la ringrazio perché le sue creazioni, oltre che essere ecosostenibili e originali, hanno fatto volare le mie nonne.

Scanno, 21 agosto 2024  (Piazza On Line)